I PC nelle indagini sono testimoni inattendibili

22 Maggio 2009 0 di Elvio

Lo strumento informatico, per la sua grande diffusione e per la sua versatilità peculiare, è ormai strumento quotidiano irrinunciabile per la maggior parte dei cittadini attivi. Ne consegue che anche le problematiche giuridiche legate a questo universo ed alle attività più o meno lecite svolte (anche con questi strumenti), sono terreno di sfida culturale molto stimolante.
Uno dei temi che appassionano gli esperti è quello relativo al computer come prova da acquisire, utilizzare ed analizzare per un processo. L’errore che spesso si fa è che, ad oggi, non sono pochi in casi in cui un PC diventa testimone chiave per l’accusa o la difesa come se questo pezzo di tecnologia inanimata, potesse rispondere a delle domande o potesse riconoscere qualcuno.
Sarebbe più giusto parlare di apparecchio usato come prova o fonte di prova sempreché il perito nominato sia in grado veramente di estrapolare qualche fonte di prova da un PC. In realtà non sempre basta trovare (o meno) una traccia di reato, occorre saper interpretare anche quello che non si trova. In realtà bisogna capire se quei dati trovati o meno siano lì perché messi dall’indagato o presenti a sua insaputa, capire se qualcosa manca perché mai stato presente oppure cancellato, capire se chi aveva accesso alla macchina era pratico, abile o esperto del sistema.
In realtà un hard disk potrebbe raccontare tutto ed il contrario di tutto, perché in fondo nessuna cosa può essere considerata certa:
– non è certa una datazione di un file (perché modificabile)
– non è certo un suo contenuto, nè la sua provenienza, nè l’autore
– non è certa la bravura del perito che si scontra con qualcuno che può essere più esperto di lui
– non è certo l’autore dell’ipotetico reato (perché potrebbe essere il proprietario stesso o qualcuno che si è inserito su un PC altrui).

Quel che è certo è che l’esperto (o il perito) dovrebbe cercare di ricostruire con strumenti non distruttivi e con metodi catalogati e certificati, il comportamento tenuto da qualcuno di fronte (o in remoto) a quel computer, interpretarne i risultati alla luce di una ricostruzione comportamentale, al fine di valutare se un reato è stato compiuto volontariamente oppure no. In ogni caso tali prove o tali indizi trovati, secondo me non determinanti, dovrebbero essere aggiungiunti ad altri fattori provanti verificati in altri ambiti; non credo sia giusto, veritiero e corretto emettere una sentenza sulla base di quanto scoperto in un PC.

Vi è infine l’esigenza di trovare regole comuni e procedure certe in assenza delle quali è molto difficile riuscire a garantire un corretto rapporto tra accusa e difesa. La necessità della certezza delle regole anche per quanto riguarda l’individuazione e la conservazione dei dati che costituiranno l’oggetto su cui si baserà la valutazione dell’organo giudicante. Il rilevamento, la conservazione ed il trattamento di questi dati, le informazioni che gli investigatori (ed i difensori) possono rilevare nel normale svolgimento dell’attività d’indagine esigono un protocollo operativo che ne garantisca integrità e la non repudiabilità in sede di processo.

Tratto da un bellissimo articolo dell’Avv. Emanuele Florindi